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mario costa risponde alla polemica sul suo ultimo libro


l’arte contemporanea e il jewish museum di new york

di mario costa

1

un libro antisemita deve essere stato scritto da un antisemita, e allora, il mio antisemitismo andatelo a cercare in quell’altra trentina di libri che ho scritto, o andatelo a raccontare alle centinaia di artisti e intellettuali, ebrei e non ebrei, che hanno lavorato con me negli ultimi quarant’anni … in italia, ma anche in francia, in brasile, in canada, negli stati uniti o in israele, dove, col mio amico natan, ho organizzato un convegno nel 1984, vi rideranno in faccia e penseranno che dietro a tutto questo c’è qualcuno che vuole farsi pubblicità usando il mio nome.

il testo ha avuto origine da una idea, maturata dopo che tanti studi stanno parlando della matrice ebraica dell’isouismo e del suo peso sulla cultura del secondo novecento, l’idea cioè che l’arte contemporanea potesse aver subito l’ influenza della nuova presenza dell’ebraismo nella storia dell’arte occidentale; non era cosa da poco, perché non verificarla?  si è parlato dell’influenza della scultura negra, dello zen, del buddismo …, e dell’ebraismo non si poteva parlare? si trattava di una ipotesi che doveva essere discussa nell’ambito della normale dialettica scientifica e con quella libertà di pensiero e di critica che dovrebbe essere applicata in ogni cosa.

ed è stata questa, evidentemente, anche convinzione del comitato scientifico e dei direttori di collana che hanno acconsentito alla pubblicazione del libro.

ho portato avanti la ricerca seguendo un metodo indiziario e induttivo; dovendo verificare l’influenza dell’ebraismo sull’arte, dovevo necessariamente parlare di ebrei, avevo bisogno di individuare l’identità ebraica di questo o di quello, e il filo-ebraismo di questo o di quell’altro.

eppure ero stato chiaro, non vi credete di cavarvela con l’antisemitismo, avevo detto, ma discutiamo la questione seriamente, l’antisemitismo non c’entra nulla, gli ebrei mi sono indifferenti proprio come gli islamici o i cristiani, semplicemente perché sono ateo e il mio problema non è dio ma il nulla.

ma no, io avevo suggerito l’idea di un complotto ebraico, specie con quel “lavorio sotterraneo delle esigenze religiose ebraiche”. e allora, dico chiaramente all’inizio che la mutazione subita dall’arte contemporanea era “già inscritta nella prospettiva del post-umano” , e chiudo il libro dicendo che dietro a quanto era avvenuto c’era “l’urgenza della tecnologia”. e’ questa una filosofia della storia, la mia, che considera la tecnologia, da qualche secolo a questa parte, come fondamento e motore del divenire storico, tesa a farsi il suo proprio mondo e ad utilizzare, per questo, ogni umana vicenda. e’ la mia filosofia, che credo in qualche modo affine a quelle, pur diverse, di heidegger, di ellul, di mcluhan, di teilhard o di severino… nessun complotto dunque perché l’arte contemporanea è stata dentro a tutto questo, ed è stata quale “l’urgenza della tecnologia” ha voluto che fosse.    

per concludere, con lo stesso spirito col quale ho scritto il libro, pubblico qui uno studio che è venuto dopo e lo sottopongo, assieme al libro, all’attenzione degli storici dell’arte e degli studiosi di estetica, ebrei o non ebrei, che si occupano di arte contemporanea.


2

l’arte contemporanea e il jewish museum di new york


nella introduzione al mio ultimo libro , che sostiene che la nuova presenza degli ebrei nell’arte del’900 ne ha condizionato lo sviluppo, avvertivo che il ruolo svolto dal jewish museum di new york, doveva essere meglio approfondito. il libro usciva a giugno, e, un mese dopo, a luglio, come se l’autore mi avesse ascoltato ma ovviamente per pura coincidenza, usciva, sul “the new york times style magazine”, un articolo che aveva per titolo: come il jewish museum di new york anticipò l’avanguardia. un gruppo di avventurosi curatori fa, di una istituzione quasi religiosa, l’arbitra dell’arte americana della metà del xx secolo.

il jewish museum, dice l’autore dell’articolo, era “l’epicentro dello shock del nuovo […] un museo controllato dal seminario teologico ebraico legato alla tradizione, diventa la punta dell’avanguardia artistica”.

i curatori di cui arthur lubow - autore dell’articolo - parla sono sostanzialmente alan solomon, sam hunter, kynaston mcshine e karl katz.

e allora, servendoci di questo provvidenziale articolo, che avvalorava le mie tesi, e di ben altre fonti, cerchiamo di capire che cosa era questo museo e che funzione i sopracitati curatori hanno svolto. non senza avvertire che, prima di tutto questo, il mondo dell’arte, americano e non, era sostanzialmente fermo alla situazione ben rappresentata dalla prima edizione (1961) delle “ultime tendenze …” di gillo dorfles , dove è ancora possibile dedicare cinque pagine a capogrossi, tre citazioni a rauschenberg, ignorare warhol e ritenere poco serie le azioni di yves klein.

il jewish museum era, fin dall’origine, un’emanazione del seminario teologico ebraico d’america, centro dell’ebraismo conservatore, e tutto quello che in esso si svolgeva era sotto lo stretto controllo dei rabbini. il museo concluse il suo periodo eroico nel 1970 quando il rabbino capo, essendosi trovato davanti a un video di les levine che mostrava un uomo e due donne nudi, costrinse katz a dare le dimissioni e il seminario dichiarò che non avrebbe mai più sovvenzionato qualcosa che non fosse “sostanzialmente ebraico”. e dunque, tutto quello che era avvenuto prima nel museo, era avvenuto perché poteva considerarsi “sostanzialmente ebraico” o perché, comunque, andava bene per l’ebraismo.

di tutti i curatori, alan solomon, morto a soli 49 anni, è il più lucido e il più geniale e in lui la questione di un’arte ebraica (e di come ottenerla) è ben sentita e chiaramente posta. c’è un suo scritto del 1960  che è di un’importanza decisiva, perché chiarisce il senso del suo operato futuro e del futuro andamento di tutta l’arte contemporanea.

solomon si sente ossessionato dalla questione dell’esistenza di un’arte specificamente ebraica:

“per più di due anni, in un modo o nell’altro, ho affrontato questo problema quasi ogni giorno. è venuto fuori come domanda rivoltami, con le migliori intenzioni e con le più grandi speranze, da semplici persone, oppure è stata da me rivolta, con le migliori intenzioni e le più grandi speranze, ad artisti e critici.

come storico dell'arte, non avevo mai nemmeno considerato la domanda prima, perché, dalla mia formazione ed esperienza, sembrava che, automaticamente, avesse una risposta […] in senso negativo”.

ma la questione deve essere riconsiderata ed egli si accinge a farlo.

qualche volta solo il contenuto ha rimandato all’ebraismo e ha fatto credere che si potesse parlare di un’arte ebraica, ma, ad esempio, nessuno ha saputo rappresentare l’ebraismo meglio di rembrandt e rembrandt non era ebreo.

l’arte non è fatta di contenuto ma di forma e di stile, e uno stile ebraico non c’è, mentre, ad esempio, c’è uno stile dell’arte francese. finanche negli oggetti, gli oggetti di culto ad esempio, non compare qualcosa come uno stile ebraico.

culturalmente e socialmente gli ebrei americani non si distinguono dagli americani stessi, e non possono avere un loro stile.

ma il contenuto non interessa più agli artisti contemporanei che sono invece orientati verso l’astrazione e verso tutto quello che da essa è derivata. e, ancora, la nuova pittura ha assunto un tono morale: “in un modo o nell’altro, gli artisti guardano al loro proprio lavoro come una forma di espressione etica”; il geometrismo, ad esempio, è da essi considerato come qualcosa di trascendentale, come un modo per porre l’arte al di sopra degli accidenti della natura e di andare al di là della mera illustrazione e dell’aneddoto. e allora?

“dovrebbe essere chiaro a questo punto che abbiamo di fronte un curioso paradosso. i nostri più importanti e interessanti artisti sono impegnati in uno stile non figurativo con una forte componente morale che opera dietro di esso. il giudaismo non ha arte; mentre ha accettato l’idea di un’arte come parte del suo adattamento all’ambiente americano, ha accettato inoltre i pregiudizi della cultura di massa. questi sono per il figurativo, i contenuti, l’aneddoto, le cose materialistiche / contro l’astrazione, il non-funzionale, le cose filosofiche [neretto mio].

solo qualche privilegiato tra il pubblico sa come affrontare le questioni sollevate dalla nuova arte.

eppure abbiamo a portata di mano le basi di un vero e proprio accordo tra il giudaismo e i nostri migliori artisti, in uno spirito assolutamente pertinente che potrebbe conciliare la forza della proibizione col tipo di dichiarazione d’artista contemporanea più significativa. che io sappia, nessun serio tentativo è stato fatto fino ad ora” .

per parlar chiaro, l’astrazione, il non-funzionale, le cose filosofiche, aprono la strada ad un’arte così come voluta dall’ebraismo. e non è difficile rendersi conto che in questo “astrazione, non-funzionale e cose filosofiche” è inscritto quasi tutto il cammino dell’arte contemporanea.

ed è con questi presupposti e queste premesse teoriche, da lui maturate ed espresse nel 1960, che solomon assumerà, un paio di anni dopo, la direzione del jewish museum.

il momento è particolarmente favorevole perché, come sottolinea arthur katz nella lettera di invito, “il museo è attualmente in una fase di grande riorganizzazione sia delle strutture fisiche che del suo programma”, e pertanto offre “una rara opportunità per lo sviluppo di un programma dinamico nel mondo dell’arte, con una attenzione particolare volta all’interpretazione della vita ebraica attraverso il medium artistico” . l’ingaggio non è facile e non solo per motivi di ordine pratico ed economico. solomon vuole avere mano libera, ma la commissione del museo vorrebbe andare sul sicuro: “già negli anni precedenti – scrive solomon - ho esposto artisti che non erano mai stati visti prima in una istituzione pubblica di new york, così come i loro commenti suggeriscono di fare”. insomma, il seminario vorrebbe fare mostre di artisti già santificati, solomon ha in mente tutto il suo programma artistico/religioso.

alla fine, louis finkelstein gli conferma la nomina a direttore del museo, non senza avergli sottolineato che “il jewish museum rappresenta una svolta storica nel giudaismo americano”, che la sua “associazione al seminario” costituirà sicuramente “ la più significativa e dinamica forza nella vita dell’ebraismo americano”.

e allora, convinto che abstraction and art objet sono non solo le manifestazioni più significative dell’arte contemporanea, ma che esse sono in grado di conciliare l’arte col divieto mosaico e di rendere possibile così, finalmente, quell’arte ebraica di cui è alla ricerca e che gli viene continuamente richiesta, egli si mette all’opera . e quella che mette in campo, nel giro di un paio d’anni, è una forza di fuoco che segnerà lo sviluppo successivo dell’arte occidentale: dal 31 marzo al 12 maggio 1963 dedica una retrospettiva a rauschenberg, la prima che egli abbia avuto, tirandolo fuori da una folla più o meno nota di artisti americani. dal 19 maggio al 15 settembre 1963 realizza la mostra toward a new abstraction mettendo assieme una serie di artisti (paul brach, al held, ellsworth kelly, morris louis, kenneth noland, george ortman, raymond parker, miriam shapiro, frank stella), per metà ebrei, spostando l’espressionismo astratto verso una forma di astrattismo “cool”, geometrizzante e decorativo, ancora più impersonale, oggettivo e “cosale” di tutti quelli precedenti, e chiamando a raccolta, con i  saggi in catalogo, i maggiori critici d’arte americani, tutti ebrei (ben heller, dore ashton, michael fried, leo steinberg, irving sandler, roberth rosenblum); la mostra servì a trarre fuori l’astrattismo dal gruppo degli espressionisti astratti, ad espanderlo e a mostrare che esso poteva essere praticato in tutti i modi possibili. ancora, dal 16 febbraio al 12 aprile del 1964 replica, con jasper johns, che è già sotto le grandi ali di castelli-sonnabend, l’operazione già fatta con rauschenberg, e gli dedica una grande retrospettiva, anche qui la prima della carriera dell’artista. infine, sempre nel 1964, solomon porta tutta la sua differenziata potenza di fuoco a venezia, riesce ad ottenere per rauschenberg il premio della biennale, e dichiara: “è riconosciuto dovunque che new york ha sostituito parigi come capitale mondiale dell’arte ”.

subito dopo venezia, un po' inspiegabilmente visto il successo ricevuto e le congratulazioni che gli arrivano da un personaggio come albert list, chairman del museo, a nome suo e di tutto il consiglio direttivo , solomon dà le dimissioni e lascia il seminario “avendo generato resistenza per voler egli guidare il museo in una direzione più sperimentale, lontana dai tradizionali aspetti educativi ebraici della sua missione”.

a solomon succede, nel marzo del 1965, sam hunter, professore universitario, storico dell’arte e curatore di mostre di artisti già noti; hunter capisce, evidentemente, che il museo deve continuare nella direzione del nuovo indicata da solomon e che però non è la sua, e si mette a fianco, kynaston mcshine, prelevandolo temporaneamente dal moma. hunter dà le dimissioni nel 1967 per essersi trovato in disaccordo col consiglio del museo, che vorrebbe che l’attività espositiva fosse prevalentemente dedicata alla cultura specificamente ebraica. kynaston resta al museo ancora per un anno, come direttore facente funzione, poi torna definitivamente al moma.

kynaston era di una importante famiglia di trinidad, molto colto e molto snob, e con lui il “nuovo” non aveva problemi e poteva continuare ad andare avanti. tra le numerose mostre da lui organizzate tra il 1965 e il 1968, il ‘nuovo’ non è rappresentato tanto dalla retrospettiva ad ives klein (1967), ebreo, o dalla mostra large scale. american paintings (1967), in cui ancora una volta, con una quindicina di artisti, per metà ebrei, si celebrava l’astrattismo, ma da primary structures, la mostra che nel 1966 dava inizio al minimalismo.

solomon aveva indicato le direzioni: “astrazione”, “non-funzionale” e “cose filosofiche”. kynaston fa una grande mostra sull’astrattismo, ma è soprattutto il “non-funzionale” ciò su cui rivolge la sua attenzione. e infatti organizza primary structures, la prima mostra della scultura minimalista, che nega il principio stesso della funzionalità.

il legame del minimalismo con l’espressionismo astratto e con l’ebraismo è fortissimo. le origini del minimalismo vanno ricercate in antony caro per quanto riguarda l’inghilterra, e in mark di suvero per gli stati uniti. antony caro è ebreo, e così alcuni dei suoi allievi partecipanti alla mostra. il legame di mark di suvero, anch’egli ebreo, con l’espressionismo astratto è poi già chiaramente riconosciuto da donald judd: “di suvero usa i raggi come se fossero pennellate, imitando il movimento, come ha fatto kline [franz klein, l’espressionista astratto]. il materiale non ha mai il suo movimento. una trave spinge, un pezzo di ferro segue un gesto; insieme formano un'immagine naturalistica e antropomorfa. lo spazio corrisponde. la maggior parte delle sculture è composta parte per parte, per addizione” . e ancora: milton kramer, critico d’arte ebreo, paragonando caro con di suvero, scrive: “entrambi hanno dato alla scultura una portata quasi architettonica, essa si protende per dominare lo spazio, in un modo che ricorda la maniera in cui gli espressionisti astratti si allontanano dal limite della pittura da cavalletto per occupare intere pareti” .

e judd, così come altri, si preoccuperà di rendere ulteriormente astratta, oggettiva e geometrica, la scultura ancora troppo umanamente ‘calda’ di di suvero e di caro.  

in quanto a tony smith, l’altro precursore americano del minimalismo, che però comincia ad esporre solo nel 1964, la sua lunga frequentazione col gruppo degli espressionisti astratti, e l’amicizia con pollock, lee krasner e, soprattutto con rotkho e barnett newman, agisce pesantemente sull’astrattezza e l’essenzialità della sua scultura.

al jewish museum, a kynaston mcshine subentra, nel 1969 e per un paio d’anni, karl katz. katz è uno storico dell’arte, brillante e attivissimo organizzatore, passa da un museo all’altro e ne fonda alcuni, finisce col fare il produttore di film sull’arte e al jewish museum non lascia segni particolari; cerca di mantenersi al passo e chiama jack burnham, già allievo di kepes al mit, ad organizzare software (16 settembre/9 novembre, 1970).

la mostra, pseudo-tecnologica, che doveva in qualche modo mettere in opera la teoria di burnham della trasformazione dell’arte in arte come sistema, si rivelò un vero fallimento, alcune apparecchiature non funzionarono, le spese andarono molto oltre il budget stanziato, katz fu licenziato e il seminario smise ogni attività relativa alla sperimentazione. ma sulla tecnologia conviene fermarsi.

la tecnologia entra effettivamente nell’arte con le iniziative di billy kluver. kluver, ingegnere della bell capì, evidentemente, che le tecnologie avrebbero potuto fare un passo avanti anche sfruttando la creatività degli artisti e organizzò una serie di iniziative mettendo a lavorare insieme artisti ed ingegneri. nel 1966 organizzò prima 9 evenings: theatre and ingeneering (new york, 13/23 ottobre 1996), e poi, sempre nel 1966 fondò una vera e propria organizzazione internazionale che coinvolse, col supporto della bell e dell’ibm , per alcuni anni, centinaia di artisti e di ingegneri realizzando numerose manifestazioni in ogni parte del mondo (experiments in art and technology, 1966/1974).

ma l’arte doveva servire a se stessa, scrollarsi di dosso gli obiettivi pratici degli ingegneri e farsi semplicemente e consapevolmente arte tecnologica. cybernetic serendipity (londra, 2 agosto/20 0ttobre 1968), organizzata da jasia reichardt e peter schmidt, un critico e un artista ebrei, volle essere tutto questo .

la ‘serendipità’ fornisce all’arte quei caratteri di casualità e di aleatorietà che devono appartenere a un’opera d’arte appena consentita dall’ebraismo.

cybernetic serendipity, fatta della già vecchia musica elettronica ma anche di molta computerart, video, istallazioni e dispositivi elettro-elettronici…, voleva dimostrare “che l’uomo può usare il computer e le nuove tecnologie per espandere la propria creatività e inventività” ma, di fatto, provocò l’acquisizione da parte ebraica, della consapevolezza che la tecnologia poteva dar luogo ad un’arte e ad una estetica perfettamente compatibili con l’ebraismo.

e, da allora, la tecnologia proseguì la sua lunga marcia con manifestazioni nelle quali l’ebraismo compariva in un modo o in un altro.

pontus hultén, uno svedese,  curatore e direttore di musei, organizza, per il moma di new york , the machine, as seen at the end of the mechanical age (27 novembre 1968/9 febbraio 1969), una gigantesca e insulsa mostra “storica” che illustra la presenza di una generica ‘macchina’ nei campi, nei modi e nei tempi più disparati e mette assieme gli ‘automi’ di vaucansons  e i disegni di leonardo, la locomotiva di cougnot e i quadri di balla e boccioni, il modulator di moholy-nagy e la bugatti.

più chiaro e pertinente è invece kynaston mcshine. kynaston, lasciato il jewish museum, torna al moma e, tra alcune altre, organizza information (new york, 2 luglio/20 settembre 1970).

information è una grande mostra “concettuale”. gli artisti, trovandosi ormai in un mondo fatto sostanzialmente di comunicazione e di informazione, hanno capito – dice kynaston - che è necessario “espandere l’idea di arte, rinnovarne la definizione e pensare al di là delle categorie tradizionali”, essi vogliono “creare un’arte che raggiunga un pubblico più vasto di quello che fino ad ora si è occupato di arte contemporanea […] l’attività di questi artisti è quella di pensare a concetti più larghi e più cerebrali del ‘prodotto’ […] l’idea può risiedere su carta o pellicola […] i media raggiungono molte più persone rispetto alle gallerie d’arte”.

insomma l’arte consiste nel distribuire informazioni artistiche servendosi dei media e solo un’arte fatta di “concetti” potrà farlo.

è chiaro che in una mostra di tal genere, che fornisce un chiaro indizio della diffusione del ‘concettuale’ in quel periodo, convergono numerosi artisti ebrei americani.

ma in tutte le mostre indicate si fa ancora questione di arte, di oggetti d’arte, per quanto concettuali e tecnologici essi possano essere. con software, la mostra che jack burnham organizza al jewish museum , l’arte e i suoi oggetti si dissolvono nel nulla. insomma, con le diverse declinazioni del concettuale, anche le “cose filosofiche”, di solomon, sono arrivate.

burnham esordisce dicendo  che “software non fa distinzioni tra arte e non arte; la necessità di fare tali distinzioni è lasciata a ciascun visitatore” e conclude con “ancora una volta, software non è dell’arte tecnologica; piuttosto essa considera le tecnologie dell’informazione come un ambiente pervasivo che ha bisogno della sensibilità tradizionalmente associata all’arte”.

insomma, l’arte si è dissolta nel sistema e, di per sé, non interessa più. ma procediamo con ordine. estendendo all’arte il concetto e il modo di funzionamento del software, inteso come un insieme di programmi modificabili e di procedure, l’oggetto d’arte è sostituito dalla esibizione dei sistemi e delle relazioni funzionali tra gli oggetti: “le macchine in software non devono essere considerate come oggetti d’arte, esse sono solo dei trasduttori, cioè strumenti che trasmettono informazioni che possono o no avere rilevanza per l’arte”, e questo spiega perché “la maggior parte di software è aniconico; le immagini sono di solito secondarie o didattiche e le informazioni richiedono spesso la forma dei materiali stampati” e, ancora, perché “molte delle opere più belle di software non sono in alcun modo connesse con le macchine. in un certo senso esse rappresentano i ‘programmi’ degli artisti che hanno scelto di non fare dipinti o sculture, ma di esprimere idee o proposizioni d’arte”. è come dire che “tutte le opere d’arte lavorano come ‘segni’, vale a dire che esse significano in un modo o nell’altro a seconda di come funzionano nel contesto artistico”, ed ecco perché “molti lavori in software hanno a che fare con concetti e processi di relazione che, a prima vista, sembrano totalmente sprovvisti dei soliti orpelli artistici”. in questa situazione, nella quale l’arte consiste nell’instaurare e nel far funzionare dei sistemi e delle idee, anche l’atteggiamento dello spettatore deve cambiare: “uno degli scopi di software è quello di distruggere le normali aspettative e abitudini percettive che il pubblico porta in una mostra d’arte […] in questo senso, l’idea di software si allontana dalla nozione dell’arte come un sistema di attese tangibili e segni predigeriti. piuttosto software richiede di fare esperienze senza i riferimenti culturali della storia dell’arte. al posto di questi, la mostra dice ‘bada alle tue reazioni quando percepisci in una maniera nuova o interagisci con qualcosa o qualcuno in una situazione nuova’. per questa ragione software considera l’aspetto percepito dell’oggetto d’arte come un elemento della intera struttura comunicazionale che circonda qualsiasi arte. introspezione più che ispezione è quanto richiesto dalla mostra”.  questa mostra del 1970, si basa, in realtà, su delle premesse teoriche che burnham ha sviluppato in due articoli che precedono la mostra . nel primo di questi articoli, burnham sostiene che “siamo in transizione da una cultura orientata all’oggetto a una cultura orientata ai sistemi. qui il cambiamento emana non dalle cose ma dal modo in cui sono fatte […] l’arte non risiede in entità materiali, ma nei rapporti tra le persone e le componenti del loro ambiente […] un sistema può contenere persone, idee, messaggi, condizioni atmosferiche, fonti di energia, e così via”, e basa queste sue teorie sul lavoro di certi artisti, alcuni ebrei, tra i quali dà la preferenza a les levine : “les levine è l’esponente più solido di una estetica dei sistemi”. e levine (ebreo), si badi: è non solo l’ispiratore, ma anche colui che ha dato il nome a software: “avendo questo in mente levine ha suggerito il nome di questa mostra”. nell’altro articolo, quello dei 1969, a levine è attribuito un posto di grande rilievo, e con l’analisi del suo lavoro si conclude il saggio: “esistono due tipi di artisti: quelli che lavorano nel sistema dell’arte, e quelli che lavorano col sistema dell’arte. les levine incarna il secondo tipo […] le opere non devono essere considerate come arte ma come sistemi che producono arte […] sul piano artistico levine deve essere accettato per quello che è: una auto-organizzazione, un sistema di generazione di dati”.

e così, software, questa grande mostra di un concettuale hard ed estremo, dissolveva la nozione stessa dell’arte, e metteva al suo posto, come arte, “gli invisibili componenti del sistema”.


e allora, che cosa è oggettivamente possibile ricavare da tutto questo e dai documenti che abbiamo preso in esame?

non possono esserci dubbi: l’affermazione fatta da arthur lubow nell’articolo citato all’inizio, e cioè che il jewish museum di new york ha anticipato l’avanguardia e che “un gruppo di avventurosi curatori ha fatto, di un’istituzione quasi religiosa, l’arbitra dell’arte americana [e poi di tutto il mondo] della metà del xx secolo”, è rigorosamente vera.

il jewish museum, tra il 1964 e il 1970, ha edificato il paradigma dell’arte contemporanea. l’“art object”, l’“astrazione”, il “non-funzionale” e le “cose filosofiche” di solomon, valgono come categorie che la riassumono, la spiegano e la rendono compatibile con l’ebraismo.

comunque, nonostante tutto questo, la questione delle influenze dell’ebraismo sull’arte contemporanea resta ancora tutta quanta aperta e da verificare.

1 ebraismo e arte contemporanea, mimesis, milano, 2020, e vedi la recensione fatta al libro, in questo sito, da stefano taccone.

2 gillo dorfles, ultime tendenze nell’arte d’oggi, feltrinelli, milano 1961

3 alan r. solomon, again: is there a jewish art ?, in a finding aid to the alan r. solomon papers, 1907-1970, bulk 1944-1970, in the smithsonian archives of american art. tutte le citazioni sono tratte da questo breve scritto.

4 “yet we have at hand the basis of a real accommodation between judaism and our best artists, in an absolutely relevant spirit which could reconcile the force of the proscription with the most meaningful kind of contemporary statement. i know of no serious attempt to do this until now”.

5 vedi jewish museum 1962-1967 – lettera di katz a solomon di march 19, 1962, in smithsonian archives of american art.

6 ivi

7 lettera di  may 27, 1962

8 lettera di june 4, 1962

9 ivi

10 l’ “abstraction” e l’ “art object” erano proprio le caratteristica di quegli artisti di new york che erano sotto mano e che aveva intenzione di portare al successo per realizzare quella conciliazione tra la “forza delle proibizioni” e le poetiche contemporanee; il fatto che questa conciliazione potesse avvenire ad opera di artisti anche non ebrei, non aveva alcuna importanza: rembrandt, non ebreo, aveva rappresentato l’ebraismo come nessun altro, artisti anche non ebrei avrebbero potuto realizzare un’arte consentita dall’ebraismo e, dunque, in qualche modo ebraica. in quegli anni le “cose filosofiche” non erano ancora arrivate, ma sarebbero venute poco dopo.

11 vedi, a finding aid to the alan r. solomon papers, 1907-1970, bulk 1944-1970, in the smithsonian archives of american art. p. 2.

12 lettera del september 24 , 1964

13 in donald judd, specifics objects, 2 may 1966, e vedilo nella sezione “writing” della juddfoundation.

14 in american art/ fall 2017, p. 43

15 mi sono già altre volte riferito a questa mostra nel corso del mio lavoro perché la ritengo un momento importante nel maturare del sublime tecnologico e , dunque, del mio pensiero estetologico, e cfr. l’ultimo mio contributo in tal senso in aa. vv. italian philosophy of technology, spinger, 2020

16 serendipity, published by studio international, london/new york, 1968, p. 3

17 information , edited by kynaston l. mcshine, july 2 - september 20, 1970 - the museum of modern art, new york

18 ivi, p. 138

19 ivi, pp. 139 e seg.

20 software. information technology: its new meaning for art , jewish museum, new york, 1970

21 l’intervento di burnham si trova alle pagg. 10-14 del catalogo, e le citazioni sono tratte da là

22 system esthetics, in artforum, vol.7, no 1, september, 1968, pp. 30-35; si può leggere in https://web.archive.org/web/20100427185152/http://www.volweb.cz/horvitz/burnham/systems-esthetics.html , e real time sistems, in artforum, vol 8, no 1, september 1969, pp. 49-55; si può leggere in https://archive.org/details/jackburnhamrealtimesystemsartforumsept1969pulsa/page/n3/mode/2up?q=oppenheim

vittorio bianco. mario costa nel suo studio. 2020