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catastrofi, fisicità virtuali e salti di stato dell’opera d’arte (1)

ermanno cristini


il tempo della pandemia, bloccando le manifestazioni artistiche in presenza, sospendendo le fiere, chiudendo le mostre, cancellando gli opening, e contestualmente implementando oltre misura le diverse forme di esposizione online e di attività in remoto, è come se avesse operato il reset di un sistema ormai giunto, nei suoi meccanismi di fondo, a piena maturità. è probabile che alla riapertura molte cose saranno cambiate e anche se alcune di esse torneranno apparentemente come prima comunque tali cambiamenti, riguardando le modalità di fruizione, produrranno diverse mutazioni nello statuto dell’opera d’arte. alcune saranno inedite, altre probabilmente già presenti in nuce nell’evoluzione che il sistema dell’arte ha segnato in questi ultimi anni.

sorgono in particolare alcuni interrogativi: i rapporti sempre più intrecciati tra opera e immagine dell’opera, opacità e trasparenza della fruizione, apparizione e apparenza, sottrazione e addizione, ecc, come si pongono entro l’invasione di opere che si inseguono su instagram o si affacciano prepotentemente nelle “online viewing rooms” delle gallerie, delle fiere e dei musei?

se vale il postulato della teoria delle catastrofi secondo cui tali eventi rappresentano un “salto” da uno stato all’altro o da un cammino all’altro, per cercare di capire dove stiamo andando può valere la pena anzitutto ripensare a dove eravamo arrivati appena prima che la pandemia congelasse in una sorta di immagine freezata il sistema dell’arte per come l’avevamo conosciuto.


cocktail argentei e arte da assaggio


“la gente era radunata in uno spazio bianco irregolare disposto su diversi livelli sotto condutture, innaffiatoi e luci a strascico, e chiacchierava su cocktail argentei (…) davano l’impressione di galleggiare fuori dal mondo, in realtà erano quelli che l’arte l’assaggiavano soltanto”.

così don de lillo nel suo mao ii. se è vero come sostiene marcel duchamp nelle interviste pomeridiane rilasciate a calvin tomkins che la superesposizione può cancellare la gioconda, tra la luce accecante dei cockail argentei si consuma l’eclissi de “il luogo sacro della cosa”, per usare le parole di žižek.

il sistema dell’arte, cresciuto in modo esponenziale negli ultimi cinquant’anni, si è disegnato intorno ad una sparizione nell’espansione. per partecipare ad un sistema che vuole l’arte come componente attivo della propria economia, l’arte ne assume le modalità strutturali ridefinendo il proprio “corpo” secondo i dettami di un’industria culturale matura, propria di un sistema “postindustriale” quale è quello contemporaneo.

a ben vedere, gli elementi di tale condizione erano già presenti nei loro caratteri fondamentali nell’analisi di adorno e horkheimer. sfrondata del manicheismo tipico del periodo, la visione francofortese coglieva chiaramente quello di cui oggi, mutatis mutandi, stiamo parlando e in particolare la nozione di amusement. è un concetto questo che più tardi svilupperà edgar morin con la cultura del loisir e se si vuole è quello che oggi chiamiamo entertainment. cambiano le dimensioni del fenomeno e naturalmente gli strumenti, ma esso ci appare come l’evoluzione di un processo, non privo di contraddizioni eppure relativamente organico, i cui prodromi erano leggibili nell’industria culturale “classica”.

in molta letteratura critica recente, da perniola a guercio, da montanari e trione a balzer, ecc, il sistema dell’arte viene descritto come sostanzialmente articolato intorno a due fattori: velocità e quantità. “artistizzazione”, “turistizzazione”, “mostrismo” “curazionismo”, sono i termini usati per descrivere una deriva di significanza compiuta entro l’affermarsi di una cultura blockbuster.

una delle analisi forse più organiche comparse recentemente sull’argomento è quella dedicata alla “società transestetica” da gilles lipovetsky e jean serroy .

i due autori collocano la questione dell’arte entro un universo complesso segnato da un capitalismo iperconsumistico fondato su un “modo di produzione estetico” diffuso ed esteso all’intera sfera dei prodotti e dei servizi. ne consegue che un viaggio presso un tour operator è trattato alla stessa maniera di un prodotto artistico o del servizio di un centro benessere: tutti realizzano un “mercato globale dell’esperienza”.

“(…)siamo in un’epoca in cui i sistemi di produzione, di distribuzione e di consumo sono impregnati, penetrati, rimodellati da operazioni di natura fondamentalmente estetica.” (lipovetsky / serroy cit.) con il termine “estetica” ci si riferisce qui a tutte quelle operazioni che toccano la sensibilità. l’economia si evolve così in quello che tradizionalmente è il suo opposto e si rigenera intorno a tale elemento ridotto a simulacro di sé stesso.

“l’attività estetica del capitalismo, che era minore o periferica, ne è ormai diventata parte strutturale e fattore esponenziale (…) non un’apogeo della bellezza nel mondo della vita, dunque, ma una riorganizzazione di quest’ultimo sotto il segno dell’artistizzazione commerciale e della fabbricazione industriale di emozioni sensibili.” (ivi, cit.)

processi di ibridazione, brandizzazione, globalizzazione, finanziarizzazione, celebrano l’iperbole, traducendosi in una “cultura” dell’iperspettacolo e dell’entertainment senza frontiere.

è tale lo scenario in cui si colloca il sistema dell’arte, la cui crescita in termini di valore economico e di appeal anche presso il grande pubblico fa capo ad una condizione in cui “ si scivola sulle opere d’arte come si scivola con i pattini nei corridoi e come si naviga a gran velocità sul web.” (ivi, cit.)

dunque in realtà la “società estetica” è una società non estetica, in quanto estetizzante. se per estetica si intende un’attività formativa – quel “mettere in forma” capace di dare forma a una weltanshaung, a un ethos, allora la “società transestetica” è una società non estetica perché è implicita nel suo presupposto la rinuncia ad una narrazione intesa come disegno di un percorso di senso.


apoteosi dell’evidenza


il filosofo byung-chul han nel suo recente, lucido, saggio sulla trasparenza della società contemporanea afferma che nella società della trasparenza le cose devono essere esposte per essere. la filosofia dei social è una filosofia dell’iperesposizione, all’insegna dell’accelerazione e della mancanza di narrazione. secondo l’autore a dominare è la logica del processore, ovvero dell’addizione accelerata di contro alla logica della processione, che invece presuppone selezione e durata. l’accesso al “sacro” prevede cesure, silenzi, stratificazioni: le opacità del tempo storico. le opacità sono invece estranee alla logica additiva del calcolo dove impera la dimensione del continuo e dell’uguale a sé stesso. “il processore conta solo”, “l’obbligo di trasparenza cancella l’odore delle cose, l’odore del tempo. la trasparenza non odora.”


sul piano dell’arte già i “cocktail argentei” non avevano odore; l’eclissi dell’estetica nell’estetizzazione, implicata dall’assorbimento dell’arte nell’entertainment, comporta di per sé la cancellazione del senso. il reset che la “catastrofe” di oggi impone, proiettando violentemente il sistema dell’arte nel prevalentemente virtuale, corrisponde dunque, nei suoi termini fondamentali, allo stadio di un processo già in corso. potremmo dire: repentinamente accelerato verso l’accelerazione dei suoi caratteri, e forse anche occasione della loro piena e definitiva esplicitazione.

al centro di tale accelerazione c’è il simulacro, la perdita di spessore e la riduzione dell’opera ad immagine istantaneamente sostituibile e sostituita. il tempo dell’addizione in instagram diventa uno spazio dove domina la vertigine dell’obsolescenza ed entro tale vertigine il “corpo” dell’immagine sembra ridursi ad una sorta di puro epitelio gassoso. non c’è tempo per la memoria in immagini che trovano una ragion d’essere esclusivamente nel loro succedersi e trascinarsi l’una con l’altra, scandito dai like e dai followers, dimensioni queste, squisitamente quantitative.

paradossalmente nei social come nelle “online viewing room”, ciò che è negata è proprio la visione per eccesso di visione. se il luogo dell’arte è per definizione la durata, il rallentamento, la selezione, il vuoto, l’esitazione, il silenzio, la pausa, la narrazione, lo spazio virtuale del suo esercizio ne annulla i termini.

gigliola foschi in un testo sulla fotografia notava come la natura “intrattabile” dell’immagine, fatta di sospensione e di ricomposizione del tempo, si stempera fino a ridursi a “piatto rumore di fondo” quando inserita nel flusso visivo saturato dei social media. l’”intrattabile” è il “pungiglione” di wind, arrotondato nel tempo vuoto della pura apparenza. ma senza “pungiglione” l’opera d’arte cessa di affermare la sua natura e il suo fine implicitamente critico.

se si considera l’opera entro una prospettiva relazionale, la sua materia si “scioglie” e si ricostituisce nell’interazione con il luogo in cui essa si compie e con gli occhi di chi la guarda. in tale accezione lo spazio dell’iperesposizione, dove i cocktail argentei si prolungano nel processore, costituisce per l’opera, inevitabilmente, un destino di insignificanza.

dunque si rende necessaria una risposta capace di restituire all’opera l’opacità della durata, che le appartiene e su cui si fonda il suo statuto. detto altrimenti, e duchampianamente, il problema è ritrovare nell’apparenza la dimensione dell’apparizione. è lì, nell’apparizione, il luogo “segreto” in cui il tempo affrancandosi torna ad essere tempo storico.

sorge allora una domanda: fuori da una visione apocalittica, come collocarsi nella tensione tra le ragioni dell’opera e le condizioni del suo potersi manifestare? quali sono precisamente i termini del cambio di stato, se di cambio di stato si può parlare, e se sì, è dato ritrovarvi la dimensione di una fisicità virtuale possibile? è nella dimensione del silenzio che un corpo dell’immagine può essere cercato, e con esso una speranza di memoria? e ancora: può il processore rovesciarsi nel suo opposto e diventare processione?